giovedì 29 giugno 2017

Crescere è una roba per grandi (Cap.3)

Nei miei ricordi era sempre Estate.
E c'era sempre il sole.
La Piazza era sgombra da macchine, moto o altri inutili ostacoli che non avrebbero facilitato i movimenti e le corse di noi atleti instancabili.
Il pavé era infuocato. Le linee sbiadite dei parcheggi delimitavano il campo come meglio potevano, affidandosi sbadatamente alla nostra buona fede, e al nostro fair play.
Le porte erano quello che erano. Senza traversa.
Solo i pali c'erano.
Da una parte una cabina del telefono ed un albero.
Dall'altra due zaini, o due maglie, o due scarpe. Quello che c'era andava bene.
Non era importante.
Era l'età in cui ci stavano spuntando i primi peli.
Dei pali non ce ne poteva fregare di meno.
Per le squadre i due più forti facevano pari o dispari e cominciava la Selezione.
Per quanto ognuno si sforzasse di essere equilibrato, alla fine non cambiava mai niente.
Sembrava di veder giocare sempre le due stesse squadre. All'infinito.
Allora ogni tanto qualcuno dei più dotati, in un attacco di empatia disinteressata, si sacrificava e cambiava squadra, sapendo che avrebbe dovuto sbattersi di più, correre di più, sudare di più, smadonnare di più e passarla di meno. Ma lo spettacolo sarebbe stato assicurato.
Palla al centro.
La sfida aveva inizio.
In campo c'eravamo tutti. Maradona, Pelé, Baggio, Zenga, Van Basten, Gullit, Schillaci, Caniggia, Higuita, Sosa, Maldini, Rummenigge.
Era un tripudio di finte di corpo, doppi passi, tunnel.
Qualcuno volava sulla fascia.
Qualcuno calciava una punizione all'incrocio.
Incornate di testa.
Qualche fallo, ma nulla di grave. Stretta di mano e via che si ricomincia.
Bomba dal limite.
Un filtrante perfetto.
Palo!
Un salvataggio sulla linea.
Intorno a noi migliaia di tifosi urlanti che incitavano e gridavano e cantavano le nostre gesta.
Noi, gli eroi di un mercoledì pomeriggio.
I giovani campioni del futuro.
Avevamo una palla ai piedi e il mondo nelle nostre mani.
Che razza di sognatori impertinenti.
Poi una rimessa dal fondo, una disattenzione di troppo, e la palla colpiva il tavolino del Bar Zenzero, e Tonino usciva incazzato gridandoci di piantarla di giocare a calcio in Piazza.
C'è gente seduta ai tavoli!
La prossima volta ve lo buco sto pallone!
Porca Puttana!
E tutto allora tornava alla normalità.
In un secondo lo stadio era di nuovo una Piazza.
I tifosi tornavano silenziosi tra le pieghe della nostra fervida immaginazione.
L'albero era di nuovo un albero, e così la cabina del telefono.
Anche gli zaini, ora che erano di nuovo zaini, sembravano aver perso un po' della loro maestosità.
Le linee tornavano ad essere dei parcheggi.
E noi tornavamo ad essere dei semplici ragazzini sudati, assetati di goal e di libertà.
Piccoli bambini di provincia che non avevano nessuna fretta di crescere.
Però che bello che era.
Sembrava tutto vero.
Così vero che se chiudo gli occhi posso ancora sentire, chiaro nella mente, l'urlo della mamma di Gabri che apre le finestre della cucina e urla a squarciagola
“GABRIELEEEEEEEEEE!! E' PRONTO DA MANGIARE!!”
E allora raccoglievamo le nostre cose, asciugandoci il sudore sulla fronte e scambiandoci una stretta di mano amichevole.
Vinti e vincitori. Nessuna differenza.
Anzi, forse una sola, ma così piccola da riuscire a passare ancora inosservata.
La differenza che, senza rendercene conto, volenti o nolenti, eravamo diventati tutti più grandi di un giorno. Ma nemmeno questo era importante.
L'unica cosa che contava era essere riusciti a regalarci un'altra partita di calcio tra amici.
E se questo, per noi, voleva dire “diventare grandi”, allora non c'era da preoccuparsi, 
perché domani ci saremmo ritrovati tutti di nuovo allo Stadio, per cominciare una nuova partita.


sabato 17 giugno 2017

Supereroe (Cap. III)

Indosso il costume da Supereroe che ha appena finito di stirare mia nonna ed esco.
L'Estate è alle porte, ma questa notte la chiave ha deciso di tenersela la pioggia, che da qualche minuto scende copiosa e implacabile. Bagnata.
Non è un problema. Mia nonna ha reso il costume impermeabile, grazie ad una mistura di zucchine ripiene, sapone di Marsiglia e olio per friggere. 
Dice che funziona.
Io le dico che mi fido.
E funziona, sì.
Però puzza che sembra l'ora di cena.
Ma nemmeno questo è un problema.
Sono o non sono un Supereroe?
Salgo al volo sulla sella ergonomica della mia Uendi e sprinto tra le vie della città dormiente, in cerca di anime bisognose di aiuto e crimini di varia efferatezza da sventare.
Non passa molto tempo e sono già sulla traiettoria del primo cittadino in difficoltà.
E' il Postino. Quello nuovo.
Sta cercando di cambiare la ruota della Panda delle Poste, da oggi pomeriggio.
E' in evidente stato confusionale e farnetica cose sul giro in ritardo e sulla posta che non ha ancora consegnato.
“Raccomandate da firmare! Pacchi in giacenza!” dice piagnucolando
“Bollette del Gas! Donna Moderna per la Signora Rina!”
Sembra inconsolabile.
“Non temere amico mio” gli dico “tu pensa alla ruota che alla posta ci penso io!”
Soddisfatto della rima raccolgo Donna Moderna, inforco di nuovo la mia Uendi, saluto il Postino e mi involo verso la casa della Signora Rina.
La vita è fatta di priorità, penso. E mi sento soddisfatto.
Ma le strade del crimine sono infinite, e come sempre finiscono per incrociarsi con il Destino, soprattutto quando il Destino è quello di un Supereroe, e quel Supereroe sono io. 
E ti pareva.
Ma la di là di tutto va bene così.
E' la vita che ho scelto.
Non mi lamento, che tanto non serve a nulla.
Ad ogni modo, faccio appena in tempo a girare l'angolo che mi trovo davanti ad una banda di teppistelli incappucciati, impegnati a suonare i campanelli di tutte le case che incontrano sul loro cammino.
“Così non si fa!” penso.
Volo sui pedali di Uendi e grazie alla pedalata assistita raggiungo il Boss dei piccoli malavitosi.
Riesco ad acciuffarlo per il cappuccio della felpa.
Lui cerca di divincolarsi, ma io sono troppo, troppo forte per lui.
I suoi scugnizzi nel frattempo si volatilizzano.
Evaporano come puzzette nel vento.
Quando il Capo si calma riesco finalmente a parlargli
“Così non si fa!” gli dico
“Per ottenere un effetto maggiore dovete infilare uno stuzzicadenti nel campanello, così rimane incastrato e suona di più! Capito?”
Lui mi guarda, stupito.
Poi sorride, sornione.
Fa un cenno di assenso con la testa.
Io gli faccio l'occhiolino e lo lascio andare.
Bisogna proprio insegnare tutto a questi giovani.
Intanto ha smesso di piovere, ma io non ho smesso di puzzare di cena.
Dettagli.
Proseguo la mia corsa verso la casa della Signora Rina, immaginandola seduta sulla sua sedia di vimini, davanti alla televisione spenta, mentre si guarda in giro smarrita e perduta, senza la sua copia di Donna Moderna.
Giro di qua, sgommo di là e giungo infine davanti all'abitazione.
Non ci credo.
Ma come ho fatto a non accorgermene prima?
Beffardo il solito Destino, mi porta sempre nel luogo a me più caro e proibito.
Il palazzo dove dorme la Donna dei miei Sogni, lassù al sesto piano.
Deglutisco e mi faccio forza.
Cerco sul campanello la Signora Rina e suono, due volte.
Si accende la luce di un appartamento al piano terra, mentre una voce lontana esce dal citofono
“Sì?”
“Posta, Signora Rina!”
“Chi?”
“Posta, Signora Rina!”
“Chi?”
“DONNA MODERNA!”
Il portone si apre. Io però non ho il coraggio di entrare.
Non sono pronto.
Non ancora.
Lascio il giornale sulla soglia e corro a nascondermi dietro i bidoni della differenziata.
Un occhio vola lassù, alla finestra del sesto piano, dove dorme la Donna dei miei Sogni.
L'altro occhio si appoggia sul portone d'ingresso, dove sta per affacciarsi la Signora Rina.
I supereroi hanno occhi indipendenti.
Così vedo l'anziana nonnina che raccoglie il giornale e se lo porta al cuore.
Una lacrima di felicità mi cade dall'occhio.
Dal balcone del sesto piano, invece, non esce nessuno.
Così anche l'altro occhio comincia a lacrimare.
E' ufficiale, sto piangendo.
Aspetto qualche minuto, poi torno davanti alla fila di campanelli.
Il nome della Donna dei miei Sogni è lì che mi fissa.
Spietato, indomabile e silenzioso.
La tentazione è forte. Troppo forte.
Frugo nella super tasca del mio costume e tiro fuori uno stuzzicadenti.
E' un modo come un altro per farle sapere che esisto.
Sono io, amore mio.
Sono qui per te.
E via di nuovo sulle ali della mia Uendi.
Si è fatto tardi e voglio tornare a casa a farmi una doccia.
E lavare il costume impermeabile.
Grazie nonna, ma per questa notte ho mangiato abbastanza.




mercoledì 17 agosto 2016

lunedì 15 febbraio 2016

PIOGGIA

Pioggia,
quando arrivi?

Sono io,
ti sto aspettando.

Ho qui con me un ombrello,
ma non lo userò
mai più.



mercoledì 2 dicembre 2015

Crescere è una roba per grandi (Cap. 2)

A dodici anni ero bello e felice.
Ed ero invincibile.
Quando è arrivata l'Estate, con il suo vestito di vacanze e di gelato, sono andato in Colonia.
Passavo le giornate tra partite di calcio sulla spiaggia, tornei di tiro con l'arco insieme al Sindaco di turno, bagni di gruppo ma senza oltrepassare le boe gialle altrimenti qualcuno sarebbe sicuramente annegato o sarebbe stato risucchiato dai mulinelli invisibili, cacce al tesoro infinite e sguardi languidi alla bambina che aveva rapito il mio cuore.
E lo aveva rapito per davvero.
Lo teneva nascosto da tempo.
Da così tanto che oramai non ricordavo nemmeno più come si facesse a respirare.
Eppure ero vivo.
Ve l'ho detto che ero invincibile.
Comunque, preso dal coraggio della mia età e dai miei presunti super poteri, ho deciso di sposarmi di nuovo.
La nostra animatrice avrebbe celebrato il rito supremo, rendendo partecipe la mia futura sposa delle mie sacre intenzioni.
Non necessariamente in questo ordine.
Infatti, prima ha reso partecipe la mia futura sposa delle mie sacre intenzioni.
E lei non è scappata.
Poi ha cominciato a celebrare il rito supremo.
E lei non è scappata.
I miei testimoni erano il sole e una splendida giornata.
I testimoni di lei, non pervenuti.
Ma potevo farcela. Ero o non ero invincibile, in fondo?
"Vuoi tu Enrico prendere come tua sposa la qui presente eccetera eccetera..." le parole del prete (nella mia immaginazione l'animatrice era diventata un prete) cominciavano a farsi confuse e vaghe.
Ero troppo impegnato a ripassare la mia parte.
"Sì! Devo dire Sì! La so, è facile!" pensavo "Devo dire sì! Sì! Cosa devo dire?"
"Sì!" ho esclamato all'improvviso.
Ma era il momento sbagliato e il prete mi ha fatto cenno di aspettare ancora qualche secondo.
Ho aspettato un'eternità. O almeno così mi è sembrato.
Poi mi sono sentito toccare il braccio.
Era l'animatrice.
Adesso potevo dire di sì.
"Sì!" Ho detto.
E il mio cuore mi è esploso di nuovo nel petto.
Ero tornato a respirare.
Di colpo.
Tutto d'un fiato.
Quella splendida bambina mi aveva ridato il cuore.
L'animatrice prete ha ripreso il rito, rivolgendosi alla mia ormai quasi sposa.
Toccava a lei adesso.
Doveva dire sì.
Bastava dire sì.
Sì.
Esse, i.
E invece è scappata via, andando a chiudersi nel bagno degli uomini.
Non ho mai capito perché lo ha fatto.
Forse perché in quello delle donne c'era sempre Giampiero che si masturbava?
Comunque intendo dire che non ho mai capito perché è scappata via, abbandonandomi sull'altare di sabbia.
Avrà avuto le sue buone ragioni, ma ci sono rimasto male.
Così ricordo di aver cercato conforto tra le tette dell'animatrice.
Lei però mi ha sradicato dal suo petto, riportandomi bruscamente alla realtà e facendomi capire, in un colpo solo, che non ero affatto invincibile e che non potevo più continuare a fare finta di essere ancora all'Asilo.
Eppure, lasciatemelo dire, ho amato tanto anche la Colonia.




domenica 29 novembre 2015

Crescere è una roba per grandi

All'Asilo mi sono sposato due volte. 
Niente di serio, ovviamente. Ma ricordo ancora perfettamente la sensazione di gioia al pensiero che non sarei mai più stato solo. Entrambe le volte.
Il primo matrimonio è avvenuto durante la merenda del pomeriggio. 
Davano yogurt alla vaniglia e succo di frutta. Io e la mia futura moglie ci siamo scambiati una lettera invisibile, da dietro il fornello della cucina giocattolo che avevamo montato in classe. 
Una cerimonia lampo, direi. 
"Allora siamo sposati?" "Certo!"
E siamo andati sotto una coperta con la pila, a guardarci le parti intime.
Come fanno i grandi.
La seconda volta che mi sono sposato è stato subito dopo la recita di Natale. 

Io ero uno dei pastorelli, col bastone e un gilet di lana merinos.
La mia futura moglie era vestita da stella fosforescente.
Insomma, io indissolubilmente inchiodato al mondo dai doveri domestici e terreni. Lei, splendida luce lassù a brillare alta nel cielo.
Non poteva durare, ma noi ancora non lo potevamo sapere.
Così al primo temporale ci siamo lasciati. 

Ricordo di essere corso dietro un grosso albero in giardino, insieme alla mia mamma, che non era ovviamente la mia vera mamma, bensì una bambina più grande di me di un anno, che aveva sviluppato in tempi non sospetti uno speciale istinto materno nei miei confronti. 
Le ho preso il latte direttamente dalle tette. 
Questo è stato il mio modo di riprendermi dall'ennesima delusione amorosa che aveva cercato di destabilizzare il mio già precario equilibrio ormonale.
Dio, quanto ho amato l'Asilo.