Nei miei ricordi era sempre Estate.
E c'era sempre il sole.
La Piazza era sgombra da macchine, moto
o altri inutili ostacoli che non avrebbero facilitato i movimenti e
le corse di noi atleti instancabili.
Il pavé era infuocato. Le linee
sbiadite dei parcheggi delimitavano il campo come meglio potevano,
affidandosi sbadatamente alla nostra buona fede, e al nostro fair
play.
Le porte erano quello che erano. Senza
traversa.
Solo i pali c'erano.
Da una parte una cabina del telefono ed
un albero.
Dall'altra due zaini, o due maglie, o
due scarpe. Quello che c'era andava bene.
Non era importante.
Era l'età in cui ci stavano spuntando
i primi peli.
Dei pali non ce ne poteva fregare di
meno.
Per le squadre i due più forti
facevano pari o dispari e cominciava la Selezione.
Per quanto ognuno si sforzasse di
essere equilibrato, alla fine non cambiava mai niente.
Sembrava di veder giocare sempre le due
stesse squadre. All'infinito.
Allora ogni tanto qualcuno dei più
dotati, in un attacco di empatia disinteressata, si sacrificava e
cambiava squadra, sapendo che avrebbe dovuto sbattersi di più,
correre di più, sudare di più, smadonnare di più e passarla di
meno. Ma lo spettacolo sarebbe stato assicurato.
Palla al centro.
La sfida aveva inizio.
In campo c'eravamo tutti. Maradona,
Pelé, Baggio, Zenga, Van Basten, Gullit, Schillaci, Caniggia,
Higuita, Sosa, Maldini, Rummenigge.
Era un tripudio di finte di corpo,
doppi passi, tunnel.
Qualcuno volava sulla fascia.
Qualcuno calciava una punizione
all'incrocio.
Incornate di testa.
Qualche fallo, ma nulla di grave.
Stretta di mano e via che si ricomincia.
Bomba dal limite.
Un filtrante perfetto.
Palo!
Un salvataggio sulla linea.
Intorno a noi migliaia di tifosi
urlanti che incitavano e gridavano e cantavano le nostre gesta.
Noi, gli eroi di un mercoledì
pomeriggio.
I giovani campioni del futuro.
Avevamo una palla ai piedi e il mondo
nelle nostre mani.
Che razza di sognatori impertinenti.
Poi una rimessa dal fondo, una
disattenzione di troppo, e la palla colpiva il tavolino del Bar
Zenzero, e Tonino usciva incazzato gridandoci di piantarla di giocare
a calcio in Piazza.
C'è gente seduta ai tavoli!
La prossima volta ve lo buco sto
pallone!
Porca Puttana!
E tutto allora tornava alla normalità.
In un secondo lo stadio era di nuovo
una Piazza.
I tifosi tornavano silenziosi tra le
pieghe della nostra fervida immaginazione.
L'albero era di nuovo un albero, e così
la cabina del telefono.
Anche gli zaini, ora che erano di nuovo
zaini, sembravano aver perso un po' della loro maestosità.
Le linee tornavano ad essere dei
parcheggi.
E noi tornavamo ad essere dei semplici
ragazzini sudati, assetati di goal e di libertà.
Piccoli bambini di provincia che non
avevano nessuna fretta di crescere.
Però che bello che era.
Sembrava tutto vero.
Così vero che se chiudo gli occhi
posso ancora sentire, chiaro nella mente, l'urlo della mamma di Gabri
che apre le finestre della cucina e urla a squarciagola
“GABRIELEEEEEEEEEE!! E' PRONTO DA
MANGIARE!!”
E allora raccoglievamo le nostre cose,
asciugandoci il sudore sulla fronte e scambiandoci una stretta di
mano amichevole.
Vinti e vincitori. Nessuna differenza.
Anzi, forse una sola, ma così piccola
da riuscire a passare ancora inosservata.
La differenza che, senza rendercene
conto, volenti o nolenti, eravamo diventati tutti più grandi di un
giorno. Ma nemmeno questo era importante.
L'unica cosa che contava era essere
riusciti a regalarci un'altra partita di calcio tra amici.
E se questo, per noi, voleva dire
“diventare grandi”, allora non c'era da preoccuparsi,
perché domani ci saremmo ritrovati tutti di
nuovo allo Stadio, per cominciare una nuova partita.